Si continua a morire nei campi della Puglia: il destino invisibile dei braccianti tra caporalato e mancati controlli ispettivi
Fa discutere la tragica morte di Camara Fantamadi, il giovane di 27 anni proveniente dal Mali, stroncato da un malore nelle campagne di Tuturano, nel Brindisino, giovedì 24 giugno dopo aver lavorato la terra sotto il sole cocente per più di quattro ore. Tornava a casa in bici dopo aver chinato la schiena sui campi: a metà strada si è accasciato al suolo.
È un fatto di cronaca che induce – e non è la prima volta – una riflessione più estesa ed articolata sull’organizzazione del lavoro dei braccianti, per fare il punto sulle singole circostanze gestite nei campi privati – e dunque sulle fasce orarie, sulle mansioni assegnate, sugli accessori garantiti – ma anche sulla ‘coerenza’ interna di un sistema più complesso in cui il reclutamento dei lavoratori agricoli, puntellato talvolta di intermediazioni illecite, non è scontatamente finalizzato ad offrire un impiego sostenibile e dignitoso. Il punto è che si tratta di fare luce non solo sui meccanismi che regolano ingaggi di fortuna – il che basterebbe a dischiudere un universo di trattative e trattamenti quantomeno di dubbia correttezza procedurale – ma anche sulle ‘pretese’ che vincolano gli operai stagionali a prospettive infondate di riscatto e che invero costituiscono, soprattutto nei confronti degli immigrati, soltanto il primo anello di una perversa filiera curvata, alla fine, su disumani scenari di sfruttamento, spesso associati a reati di altra natura. Basti pensare – non è di certo uno scoop – che al giovane Camara venivano corrisoosti 6 euro all’ora. Ma la dignità nel lavoro – si sa – non è solo questione di sottosalario.
Il giovane 27enne, stando alle prime notizie raccolte – risiedeva ad Eboli, ma da tre giorni si era spostato in Puglia per raggiungere il fratello.
Lì, a Tuturano, aveva trovato lavoro per 24 euro al giorno. Una trasferta interregionale che gli era parsa un’occasione da non perdere. Diremmo: una traiettoria tutt’interna ai territori del Sud che interseca i circuiti esistenziali di tanti uomini e donne senza patria, aggrappati ad una via di riscatto da un ingiusto destino.
Se è vero che la fatica non ha prezzo, chiediamoci però se il lavoro contribuisca ad affermare la vita come valore. E ci si chieda se imporre di lavorare sotto il sole, con l’afa soffocante che brucia il respiro e prosciuga in fretta l’ultima goccia d’acqua, sia una misura tollerabile e riconducibile al ‘minimo sindacale’ che dovrebbe tutelare l’incolumità dei braccianti agricoli o non sia piuttosto una delle tante ‘sacche’ di inciviltà che inquinano un sistema di inclusione sociale di per sé fragile ed inficiato da atavici deficit strutturali tra gli attori del sistema stesso. Sì, gli attori: gli imprenditori agricoli ed i sindacati, gli enti locali e le associazioni di categoria. Per non dire degli organi di controllo ispettivo. A voler scucire le trame istituzionali rovinate da scompensi disfunzionali persistenti, che manco protocolli ed alleanze riescono per ora a sanare, viene fuori una rete di interessi più che un’opera di servizi in difesa del lavoratore. Quanto ci guadagna lo Stato nell’eludere queste tragedie? Invero, per rimanere in Puglia, qualche segnale era stato di recente dato dall’Amministrazione comunale di Nardò: il sindaco aveva emanato ordinanza recante divieto di prestare lavoro nei campi nelle ore più calde della giornata. Ed ora anche il sindaco di Brindisi è corso ai ripari ‘chiudendo’ i campi nelle ore in cui il caldo torrido si fa maggiormente sentire. Misure contenitive che andrebbero evidentemente potenziate all’interno di un più efficace sistema di controlli.
Episodi come quello che ha avuto per protagonista, suo malgrado, il giovane malese sembrano di fatto far retrogredire il percorso finora compiuto nella lotta al caporalato – in Puglia come in altre aree rurali del Mezzogiorno – per la difesa della dignità e del diritto alla sicurezza dei lavoratori e, più in generale, sul fronte dell’integrazione dei cittadini extracomunitari.
Eppure, sono trascorsi circa cinque anni dall’entrata in vigore della legge n. 199 del 29 ottobre 2016. A fronte dei reiterati casi di infortunio sul lavoro o comunque di incidenti finanche mortali correlati a prestazioni lavorative insostenibili un bilancio andrebbe probabilmente tirato giù dritto, con franchezza, fosse solo per comprendere se le condotte delittuose sono sempre e per davvero state perseguite a norma di legge. Tanto più se si considera che elementi discriminanti, utili a capirci qualcosa, non ne mancano: la legge contro il caporalato colpisce le difformità manifeste tra la retribuzione, la quantità di lavoro prestato e le previsioni dei contratti collettivi di lavoro.
È chiaro che spetta all’autorità giudiziaria verificare se, nel caso di Tuturano, ci sia stata una sproporzione tra la prestazione lavorativa ed il suo duplice contesto materiale e normativo. Una domanda si profila intanto netta all’orizzonte d’ogni pratica istruttoria: sottoporre a degradanti condizioni prestazionali un lavoratore in stato di bisogno quale può essere un cittadino extracomunitario come Camara non è da considerarsi già sfruttamento? C’è da affidarsi agli indicatori contemplati dallo stesso dispositivo normativo. Bisogna scandagliare le disposizioni organizzative sull’orario di lavoro, sul riposo settimanale e sugli altri periodi di riposo, di aspettativa obbligatoria e ferie. Ebbene, vista l’ora in cui Camara rientrava in bici dalla campagna ci si chiede quale sia stata la fascia oraria effettiva in cui da tre giorni egli stava lavorando. Tutta da esplorare è poi la fattispecie in termini di sicurezza e salute nel settore agricolo, per capire cioè se vi siano state violazioni in materia.
Molti aspetti di questa triste vicenda restano da chiarire. Fa rabbia il constatare che molti altri l’accomunano a storie precedenti ed il fatto che cittadini extracomunitari continuino a morire sul campo lascia intendere una disarmante verità: troppo poco o nulla finora s’è fatto sul fronte della prevenzione. (Giuseppe Falanga)