Il carcere, la rieducazione… e noi?
di Marcello Capasso
Il carcere non è un albergo, è l’istituto in cui il reo, dopo un giusto processo in cui vengono rispettati tutti i principi costituzionali e le norme dell’ordinamento processual-penalistico, deve espiare la pena commisurata al reato che egli ha commesso.
Il carcere non è un luogo di villeggiatura, in esso il condannato in via definitiva, dopo tre gradi di giudizio improntati non dalla velocità, ma dalla giustizia, deve rimanere per il tempo determinato da un giudice (ovvero collegio giudicante), profondo conoscitore delle norme sostanziali e processuali.
Il carcere non è una casa, ma neppure un orfanotrofio per adulti; in esso la persona, aiutata dal personale di sorveglianza, daimedici, dal cappellano, dalle associazioni di volontariato deve riflettere sugli errori, sulle sofferenze provocate e dare nuovo senso alla vita.
Il carcere non è un posto di divertimento, ma non deve diventare nemmeno un luogo buio ed isolato da tutti e tutto.
Il carcere non è un tempio dello sport, in esso i detenuti devono, però, avere la possibilità di compiere un po’ di attività ginnica.
Il carcere non è una scuola di recitazione, però sarebbe utile per il benessere mentale se in ogni istituto di pena i detenuti potessero impegnarsi in rappresentazioni teatrali.
Il carcere non è una chiesa, una moschea, una sinagoga, i detenuti dovrebbero, in ogni caso, avere la possibilità di vivere la religiosità in modo costante nel rispetto del calendario liturgico.
Tante persone si prodigano anche in questi giorni infuocati di agosto per cercare di renderlo meno pesante, tanti progetti di reinserimento sociale vengono portati avanti nonostante le poche risorse a disposizione e l’idea di alcuni “politici influencer” che esso serve esclusivamente per punire severamente chi delinque.
Con il carcere lo Stato, invece, non si vendica, ma assume il compito di rieducare il delinquente, reinserirlo nella famiglia, nel lavoro e, in generale, nella società.
La rieducazione è un percorso difficile, ma è l’unica cosa che conta sia per il detenuto che per la società in cui dovrà essere riammesso senza alcuna discriminazione.
Nessun uomo, donna perde la dignità dopo la commissione di un reato, la dignità si acquista sin dal concepimento e non la si perde mai, neppure dopo il più efferrato delitto.
Nel carcere attuale anche se tanti fanno la propria parte, compiono con meticolosità, giustizia e passione il proprio lavoro, i detenuti e lo stesso personale di sorveglianza non ce la fanno più; è giunto il momento in cui gli istituti di pena siano profondamente riformati o, meglio, siano radicalmente rinnovate le modalità di esecuzione della pena e risolto l’atavico problema del sovraffollamento.
Al 30-04-2022 secondo i dati ufficiali del Ministero della Giustizia, i detenuti presenti negli istituti di pena erano 54.595 a fronte di 50.853 posti con un tasso di sovraffollamento pari al 107,35%; la situazione è migliorata rispetto al livello raggiunto prima della pandemia, ma resta molto preoccupante.
È impossibile la rieducazione del condannato negli angusti spazi delle attuali carceri italiane; se nelle nostre case spesso non riusciamo a convivere con i nostri familiari, pur avendo a disposizione tanti metri quadrati, come può lo Stato raggiungere la rieducazione dei detenuti che vivono in tre metri quadrati? Per il calcolo dei tre metri quadrati la Suprema Corte ha stabilito che devono essere scomputati gli arredi fissi presenti nella cella quali ad esempio i letti (singoli o a castello).
Invero, la Suprema Corte, con la sentenza n. 6551/2021 pronunciata a Sezioni Unite il data 24.09.2020 (deposito delle motivazioni il 19.02.2021), ha risolto gli insorti contrasti interpretativi in ordine al metodo di calcolo della superficie minima dello spazio personale per i detenuti all’interno della cella; per scongiurare la disumanità della detenzione e, dunque, la violazione dell’art. 3 CEDU, la Cassazione ha affermato i seguenti principi di diritto:• “Nella valutazione dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento nella cella e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello” ;• “I fattori compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se ricorrono congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; nel caso di disponibilità di uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi, unitamente ad altri di carattere negativo, concorrono alla valutazione unitaria delle condizioni di detenzione richiesta in relazione all’istanza presentata ai sensi dell’art. 35 ter ord. pen.”.
Quindi i detenuti hanno diritto a tre metri quadrati al netto di ogni mobile fisso, la rieducazione di un delinquente passa da uno spazio di tre metri quadrati che, peraltro, non sempre viene rispettato. Su questo dato dovremmo meditare, riflettere, fare convegni e ricordarcelo quando ci lamentiamo dei nostri spazi; è chiaro che chi delinque mette in conto di finire dietro le sbarre ed è giusto che lo Stato preveda la reclusione, ma nel 2022 dobbiamo cercare soluzioni nuove anche alla luce dei fondi del PNRR.
La rieducazione e la risocializzazione devono essere perseguite con tenacia nei confronti di tutti i delinquenti, anche di quelli che hanno commesso reati gravi; troppo alta è, infatti lapercentuale di recidiva (circa il 70%) per chi esce dal carcere, evidentemente si investe ancora poco, c’è bisogno di un’inversione di tendenza, la capacità di guardare “chi sbaglia” con lo sguardo amorevole e misericordioso di Gesù.
Gesù, sommo giudice, ha tracciato una strada: la giustizia e la misericordia devono viaggiare di pari passo, la società ha bisogno di definire cosa è reato, ma non deve mai dimenticare che l’uomo resta uomo.
In questo contesto si inseriscono le frasi del magistrato di sorveglianza del Tribunale di Verona secondo cui “se in carcere muore una ragazza di 27 anni così come è morta Donatella significa che tutto il sistema ha fallito. E io ho fallito, sicuramente….”.
Donatella si trovava in carcere per reati legati al suo stato di tossicodipendente e si suicidata pochi giorni fa inalando del gas da un forneletto; il magistrato aveva acconsentito alla permanenza della ragazza in una comunità, ma dopo la sua fuga si era riaperta la porta dell’istituto di pena per reati legati alla tossicodipendenza. Donatella prima di suicidarsi ha lasciato una straziante lettera al suo fidanzato ricordandogli che lo amava, ma non ce la faceva più a vivere.
Il giudice Semeraro lavora da anni con detenute donne, prima a Venezia e poi a Verona, ed ha evidenziato che la povera donna era un caso a lui particolarmente a cuore, perché più volte l’aveva vista finire in carcere; era fragile come un cristallo di Boemia anche se non mostrava questo lato del suo carattere, aveva una corazza e così il primo approccio era difficile. Semeraro aveva avuto difficoltà per conquistare la fiducia della ragazza e, nello stesso tempo, fidarsi di lei. Egli ha scritto di aver fallito insieme a tutto il sistema dell’esecuzione penale, si poteva e doveva fare di più, magari si poteva parlare un po’ di più con la ragazza, darle un po’ di conforto e consolazione in più, fare più colloqui.
È significativo che un magistrato ammetta che poteva fare di più, è importante che queste parole abbiano suscitato una discussione.
Quante persone riconoscono nella vita di aver commesso qualche errore nel compimento del proprio lavoro? Quanti uomini ovvero donne esaminano il proprio operato che, tra l’altro, può avere conseguenze sulla società? Nei nostri esami di coscienza siamo in grado di riconoscere di sbagliare ovvero di fare poco per tutte le situazioni in cui ci è chiesto di amare incondizionatamente?
C’è grande difficoltà ad intendere e guardare l’esecuzione della pena in un’ottica costituzionalmente orientata e c’è gente (anche politici) che, riferendosi a chi deve scontare una, dice senza mezzi termini che bisogna chiudere la porta del carcere e buttare la chiave! Che tristezza dinanzi a cotanta ignoranza, rancore, desiderio di vendetta e rabbia.
Certo, le pene devono essere eseguite, le vittime dei reati devono essere adeguatamente risarcite, i detenuti devono rielaborare ciò che hanno fatto e chiedere scusa; nello stesso tempo occorre rispettare l’umanità e la dignità delle persone, un detenuto rieducato è un guadagno per tutti. Secondo il medico-scrittore Andreoli ‘’il carcere come camicia di forza, come immobilità per non far del male è pura follia, è antieducativo. Non appena viene tolto il gesso, c’è subito una voglia di correre e di correre contro la legge”.
Tornado alla vicenda di Donatella, secondo il magistrato Semeraro quando a finire in carcere è una donna i problemi raddoppiano, perché esso è pensato come istituzione che deve contenere la violenza e l’aggressività che sono tipicamente maschili; ed ancora un carcere che dia modo alla emozionalità, caratteristica tipicamente femminile, di esprimersi, per il magistrato in Italia non c’è.
Infine è sbagliata la “teoria” del chiuderli dentro e buttare la chiave”, contrasta nettamente con l’art. 27 della Cost. e tutte le leggi di attuazione del principio sacrosanto della rieducazione del reo; Semeraro pone l’accento sulle misure alternative alla detenzione che devono essere rivalutate. Nel 1948 non si pensava ad esse, ma certamente i Padri costituenti sapevano che la reclusione e l’arresto non erano l’unica forma di esecuzione della pena. Se il condannato anziché stare in carcere, sta ai domiciliari o in affidamento al servizio sociale e lavora, guadagna e paga le tasse e questo ha sicuramente una ricaduta positiva sullo Stato.
In questo modo si prende atto che la pena ha una valenza polifunzionale, ossia perché ritroviamo diversi aspetti, uno preventivo, un altro retributivo e, ovviamente, quello rieducativo che deve prevalere su tutti gli altri.
Il magistrato di sorveglianza Semeraro non si è sottratto dall’affrontare il problema della tossicodipendenza riconoscendo che la politica aveva iniziato ad affrontare il problema con gli istituti di carcerazione attenuata, salvo poi far finire tutto in un nulla di fatto. Neppure la recente riforma penitenziaria ha tradotto in legge ciò che di buono viene riscontrato nella pratica per addivenire veramente ad una rieducazione effettiva del reo e, soprattutto, per il recupero del tossicodipendente che varca le porte del carcere.
Ma vi di più. La droga circola negli istituti di pena grazie ai detenuti più o meno legati alla criminalità organizzata che si avvale dei più deboli per lo spaccio con conseguenze nefaste. Andrebbero colpite significativamente le organizzazioni criminali con la confisca dei beni e patrimoni ed il loro riutilizzo per scopi sociali.
Per un esame delle condizioni delle carceri è opportuno sottolineare le parole del Garante dei detenuti Mauro Palmasecondo cui finché il carcere verrà percepito come un luogo che segna le persone, un luogo di “non speranza”, finché la cultura esterna al carcere è centrata sul castigo e sullo stigma, allora determinerà per chi entra in un penitenziario il senso di essere caduto in baratro e per chi sta per uscire l’ansia di non poter riavere una vita degna.
Noi dobbiamo interrogarci molto sui suicidi dietro le sbarre, e invece facciamo le solite quattro urla sul fatto che il carcere non funziona. Questo in buona parte è vero, ma il garante non concorda sul fatto di attribuire al malfunzionamento del sistema detentivo la sola ragione dei suicidi. La responsabilità, in parte, è anche di noi che stiamo fuori, del modo di pensare comune.
Purtroppo il suicidio di Donatella non è un caso isolato, poiché dall’inizio dell’anno (dati al 12 agosto 2022) sono già cinquantuno i suicidi in carcere, un record assoluto che dovrebbe costringere a porre domande sull’utilizzo del carcere preventivo e sulla qualità della vita all’interno delle strutture penitenziarie.
L’8 agosto scorso il Ministero della Giustizia ha reso noto l’avvio da parte del Dap, l’amministrazione penitenziaria, di una serie di «linee guida» per la «prevenzione delle condotte suicidiarie delle persone detenute»; ma per avere un impatto reale occorre tempo, tenuto conto ad es. che nella circolare, il Capo del Dap invita i provveditori a garantire una particolare attenzione alla formazione specifica del personale, attraverso cicli di incontri a livello centrale e locale, destinati a tutti gli attori del processo di presa in carico delle persone detenute.
In carcere ci si suicida 16 volte più che fuori, c’è tanto disagio, tanta sofferenza e solitudine che hanno determinato un aumento del numero dei suicidi.
Nel carcere di Busto Arsizio, in provincia di Varese, un staff di cui fa parte il cappellano Don Riboldi ha lanciato l’appello: “Mettete i telefoni in cella come nel Nord Europa……una telefonata salva la vita”. Don David Maria Riboldi si è rivolto al Ministro della Giustizia, Marta Cartabia e al capo del Dipartimento delle sedi penitenziarie, per chiedere l’uso dei cellulari nelle celle, un tema già trattato nella recente visita del presidente della Cei, il cardinale Matteo Maria Zuppi. «Nelle carceri italiane si sono tolte la vita 47 persone, in questo 2022– spiega il cappellano – La solitudine, l’abbandono, la disperazione sono le cause. Urgono alla nostra coscienza risposte concrete. Non facili denunce, ma proposte per arginare l’oscurità, che troppo agilmente prende il sopravvento nelle persone recluse. Ministra la supplico: il telefono in cella, senza limiti di orari, era già una delle proposte della commissione Ruotolo, dello scorso dicembre. L’incidenza storica di quanto accade fa piovere su di lei una richiesta, cui certo il suo cuore non sarà sordo. Non passerà un altro Kayròs (un tempo opportuno): se non lei, chi? Se non ora, quando?».
È chiaro che l’appello-supplica di Don Riboldi proviene da una persona che conosce il carcere, sa cosa c’è lì dentro, cosa si prova nelle sue anguste celle.
Quanti politici accoglieranno questa accorata richiesta? Quanti candidati, già presi dal lanciare anatemi o sogni irrealizzabili, daranno ascolto ad una voce che per certi versi assomiglia a quella che duemila anni fa “gridava nel deserto”?
Parlando del carcere, il grande giurista, avvocato, costituzionalista Piero Calamandrei nei discorsi pronunciati alla Camera dei deputati nelle sedute del 27-28 ottobre 1948 diceva: Bisogna vedere, bisogna starci, per rendersene conto. Ho conosciuto a Firenze un magistrato di eccezionale valore che i fascisti assassinarono nei giorni della liberazione sulla porta della Corte d’appello, il quale aveva chiesto, una volta, ai suoi superiori il permesso di andare sotto falso nome per qualche mese in un reclusorio, confuso coi carcerati, perché soltanto in questo modo egli si rendeva conto che avrebbe capito qual è la condizione materiale e psicologica dei reclusi, e avrebbe potuto poi, dopo quella esperienza, adempiere con coscienza a quella sua funzione di giudice di sorveglianza, che potrebbe essere pienamente efficace solo se fosse fatta da chi avesse prima esperimentato quella realtà sulla quale doveva sorvegliare.Vedere! Questo è il punto essenziale. Il magistrato a cui fa cenno nel brano è Pasquale Saraceno, consigliere di Corte d’appello e amico personale di Calamandrei, ucciso nelle ore della liberazione di Firenze da un cecchino fascista. Il giudice teneva quel giorno per mano un bambino, il figlio Pietro (1940-1998), che assistette alla morte del padre e che è stato uno dei più intelligenti e innovatori cultori della storia della magistratura italiana.
Nel 1948 su proposta dell’illustre avvocato Calamandrei fu istituita una Commissione parlamentare di inchiesta sulle carceri (Commissione Persico) che doveva indagare, vigilare e riferire al Parlamentare sulle condizioni dei detenuti negli stabilimenti carcerari e sui metodi utilizzati dal personale di sorveglianza per mantenere la disciplina tra i reclusi.
E veniamo a noi, cosa stiamo facendo? Cosa ci preoccupa, di cosa ci occupiamo? Dei like sui posto di facebook, di quante persone seguono le mie storie su Instagram, i video Tik-Tok…?Viviamo la vita reale oppure soltanto quella social?
Siamo soliti dire che è sui social che bisogna evangelizzare lasciando scoperto il mondo delle carceri, degli ospedali, delle periferie delle città, delle case in cui vivono persone completamente sole, delle scuole nei quartieri abbandonati dallo Stato……?
Possiamo e dobbiamo fare di più perché se migliorano le condizioni dei detenuti, anche le loro famiglie vivranno meglio, sarà più facile il loro reinserimento nella società e ci saranno meno possibilità di recidiva.
La rieducazione è fondamentale per un Paese moderno, la risocializzazione di chi delinque è uno scopo da perseguire senza se e senza ma; i politici, i candidati alle prossime elezioni alla Camera dei deputati e del Senato della Repubblica mettano nella loro agenda per i prossimi lavori parlamentari il miglioramento delle condizioni di vita dei reclusi. Non abbiano timore a rilanciare la rieducazione, continuino il lavoro iniziato più di settanta anni fa dai Padri Costituenti e proseguito anche grazie alla giurisprudenza della Corte Costituzionale.
In questo difficile cammino teniamo a mente le parole di Papa Francesco secondo cui tutti sbagliamo nella vita, ma l’importante è non rimanere “sbagliati”, tante volte noi nella vita troviamo una mano che ci aiuta a sollevarci: anche noi dobbiamo farlo con gli altri: con l’esperienza che noi abbiamo, farlo con gli altri” (Casa Santa Marta incontro tra Francesco e un gruppo di persone che hanno vissuto l’esperienza del carcere24.10.2021).