L’impegno morale e politico di Aldo Moro nel ricordo di Vittorio Bachelet
di Giuseppe Falanga
Il 17 maggio 1978, ad otto giorni dall’assassinio di Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse, Vittorio Bachelet inaugura i lavori dell’Assemblea plenaria del Consiglio Superiore della Magistratura, in qualità di Vice Presidente, per commemorare l’illustre statista pugliese. È un intervento accorato ed equilibrato, discreto e addolorato, formulato con parole tanto misurate nell’evitare eccedenze apologetiche quanto intense nell’esprimere intima sofferenza. Tuttavia, si manifesta tutt’intera la cifra cristiana di un’esperienza personale il cui orizzonte di senso andava sì profilandosi nell’impegno profuso dallo stesso Bachelet nell’attività istituzionale ma, prima ancora, nell’amicizia condivisa con Moro: in principio nella militanza nel movimento dei cattolici democratici; poi nelle battaglie politiche della Democrazia cristiana; infine, nella mutua consonanza di ideali e stili con cui veniva naturale ad entrambi – per indole e formazione – incarnare una certa visione politica. Dal 1974 professore ordinario di Diritto pubblico dell’economia presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli studi “La Sapienza” di Roma, nel 1977 ordinario di Diritto amministrativo nello stesso ateneo, già Presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana dal 1964 al 1973, Vittorio Bachelet aveva esperito in prima linea forme diverse di partecipazione alla vita sociale, culturale e civile del Paese, fino ad assumere nel dicembre del 1976 l’incarico di Vice Presidente del CSM. Nella curva d’anni in cui il terrorismo armato andava insanguinando le istituzioni italiane, Bachelet si impegnò affinché il CSM mantenesse la propria autonomia rispetto agli altri poteri dello Stato e alle parti politiche. Era mosso dal fermo convincimento che un organo di rilievo costituzionale chiamato dalla legge fondamentale dello Stato a garantire l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura dovesse esso stesso poter agire, per primo, nel pieno e libero esercizio delle sue funzioni. Proprio l’eccidio di via Fani nel marzo di quel terribile anno, a fronte della recrudescenza della violenza terroristica e delle controverse relazioni prefigurabili tra i movimenti sovversivi e lo Stato italiano, aveva sollecitato nel CSM – e nel Vice Presidente innanzitutto – un avvertimento tanto più urgente e convinto quanto a più riprese esternato al Parlamento e al Governo circa la necessità di mettere mano ad una riforma graduale dell’amministrazione della giustizia. S’invocava un intervento decisivo che partisse da una revisione ordinamentale ed approdasse ad un riesame delle procedure, senza intanto cedere all’ingannevole efficacia della legislazione d’emergenza per sedare l’onta brigatista. Lo stesso assassinio di Bachelet avvenuto il 12 febbraio 1980 è da addebitare – nella farneticante argomentazione delle Brigate Rosse – alla fiducia riposta nell’istituzione giudiziaria che egli era stato chiamato a presiedere ed in forza del protagonismo in qualche modo assicurato al CSM, tra le istituzioni repubblicane, anche grazie alla sua operosità tenace nella lenta e pacifica ricomposizione delle energie che agitavano la società civile. Dinnanzi all’Assemblea plenaria Bachelet mette subito in chiaro la premessa del suo intervento: Aldo Moro è stato ucciso perché “servitore e testimone degli ideali di libertà e di giustizia che sono anima e forza della democrazia.” Sin dalle prime battute, il discorso di Bachelet inaugura una commemorazione che appare sì “addolorata e commossa” ma mai vellutata da retorica di circostanza; essa diventa occasione per condividere con le istituzioni e con il popolo italiano il senso profondo della testimonianza di quanti – come Aldo Moro – sono caduti per la libertà in difesa della democrazia, affinché dal loro luminoso esempio siano tratte energie e motivi per “la costruzione di una convivenza civile più umana e serena.” Eppure, è tanto nutrita e variegata la sostanza del discorso che, nel richiamare i principi declinati da Moro nella sua esperienza umana, culturale e politica, la logica celebrativa risulta sospesa per offrire argomenti da cui estrarre segni di una visione precisa del sistema politico e sociale. Bachelet non si limita a rievocare il Moro studioso e deputato, l’uomo di governo e il leader politico. Lo fa, certo, nel ricordo della sua variegata azione politica ed accademica, a partire dall’esperienza giovanile nell’Assemblea costituente e dalla specializzazione negli studi penalistici. E’ poi tratteggiata l’attività istituzionale, come quella svolta in qualità di Ministro Guardasigilli dal luglio del 1955 al maggio del 1957 in difesa dell’indipendenza della Magistratura. E’ inoltre evocata l’istituzione dello stesso CSM, insediatosi con il successore Guido Gonella. Si fa riferimento anche alla riforma di alcune strutture e prassi ordinamentali, come ad esempio la legge di modifica delle circoscrizioni giudiziarie, la legge sull’accesso delle donne in Magistratura, ossia nelle Corti d’Assise e nei Tribunali per i minorenni, l’organizzazione del primo corso di perfezionamento per uditori giudiziari. Bachelet evidenzia che la ferma adesione ai principi del diritto non è stata in Moro mai disgiunta dalla profonda e partecipata riflessione sulla condizione umana e dalla lucida percezione dei dinamismi sociali. Anzi, vi coglie la capacità di operare sintesi realistiche tra interessi plurimi, senza mai cedere alla tentazione di risolvere le questioni con formalismi sbrigativi, agendo piuttosto nell’intransigente rispetto della cogenza sanzionatoria della norma e con equilibrata consapevolezza della “complessità dei rapporti nella convivenza sociale.” Quelle di Bachelet sono parole che, oltre ad un immediato e ragionevole giudizio di condanna dell’efferata crudeltà terroristica, tradiscono la più generale e profonda consapevolezza di quanto la stagione politica fosse difficoltosa. Si è coscienti del fatto che la congiuntura è tale da esigere, come non mai in trent’anni di storia repubblicana, un appello non più rinviabile alle più alte idealità della civiltà e della morale. E’ una sollecitazione da cui si spera possa discendere un supplemento di partecipazione e responsabilità, nel solco della lezione offerta dall’umanesimo cristiano. È un richiamo fiducioso e drammatico, in forza del quale gli uomini e le donne dedite all’attività pubblica ed istituzionale, a tutti i livelli ordinamentali, possono trovare l’incontrovertibile ragione di un rinnovato impegno morale. La razionalità sostiene l’uomo politico nel discernimento delle contingenze quotidiane da cui egli è chiamato a trarre motivi di sviluppo della persona e del bene comune. Aldo Moro sapeva quanto arduo fosse tale compito, perché aveva messo in conto la complessità della vita politica. Le condizioni della partecipazione individuale sono orientate tanto da indirizzi etici quanto da indirizzi ideologici che, estrinsecandosi nell’agire politico, incidono alla lunga sulle dinamiche di riproduzione sociale. E Moro aveva accolto la complessità sociale come dato fattuale e come motivo sfidante per comprendere – assumendone il peso – le variabili che connotano la società. Bachelet evoca di proposito la formazione penalistica dello statista pugliese, ossia l’originaria attitudine del fine giurista a ponderare le cause e gli effetti della pena, i fattori e gli accidenti, le aggravanti e le attenuanti. Se la vita sociale è, nelle sue pur molteplici variabili evolutive, orientata dall’agire politico verso il paziente e tenace contemperamento degli interessi, quelli dell’individuo e quelli della collettività, la socialità diviene essa stessa la dimensione ordinaria in cui le diverse opzioni si esprimono e risolvono i conflitti, per armonizzarsi nella realizzazione del bene comune. Non è un caso se, sin dalle prime parole, Bachelet opera lavorando, come si suole dire, ‘di contesto’ ossia ancorando la triste cronaca allo scenario culturale e sociale del tempo. Al “disegno di terrore, di orrore e di morte” perseguito dalle forze eversive egli oppone con fermezza l’alternativa di un “disegno di giustizia entro cui accogliere e ordinare la tumultuosa crescita della nostra società.” La vicenda umana di Aldo Moro – la salda coerenza assicurata tra la fede cristiana e l’azione politica da lui vissute e testimoniate, entrambe con naturale efficacia di modi e di sintesi, fino al martirio – esprime la necessità di ordinare la società secondo un indirizzo etico essenziale. E’ la disposizione fondamentale che proprio i sommovimenti violenti, e dunque irrazionali, della rivalsa anti-democratica andavano tragicamente offuscando fino a rigare di sangue innocente la cesura generata tra il diritto e lo Stato. È, questo, un elemento di contenuto che emerge tra le righe ed orienta il senso del discorso di Bachelet al punto tale che intorno ad esso si sviluppa una riflessione di più ampio respiro. Si muove dal tragico epilogo del 9 maggio e ci si sospinge fino a divellere le radici del presupposto morale di un ordine sociale che voglia essere sano. Nelle parole di Bachelet trova pertanto eco il principio – che fu anche di Moro – del personalismo cristiano nella sostanziale relazione con il cattolicesimo democratico: solo il riconoscimento del primato della persona, dei diritti e delle libertà fondamentali può costituire la premessa ad un equilibrato esercizio della democrazia. Tale assunto, per tramite di Bachelet, trova spazio in quello che si voleva fosse, e tale fu, il reverente tributo ad un amico e maestro e da cui venne fuori un ricordo ricco di considerazioni e riflessioni di largo respiro etico. Trova eco nel ricordo di Bachelet il vivido senso delle istituzioni repubblicane che ebbe in Moro – nella sua figura carismatica, nel suo impegno morale e politico, nella sua vicenda drammatica – un riferimento cardinale per l’attività politica intesa come espressione alta del servizio dovuto al cittadino. La lezione dello statista pugliese riverbera nelle parole dello statista romano, come rinsaldate nella medesima adesione al dettato evangelico e – da qui – confluenti nel comune slancio profetico verso una nuova solidarietà popolare, nella consapevolezza che la tenuta del sistema istituzionale repubblicano sarebbe stata garantita soltanto da un rinnovato esercizio di responsabilità sociale e nella declinazione effettiva, in chiave personalistica, del pluralismo ideologico e culturale, ossia preservando le attribuzioni di doverosità etica e di partecipazione democratica negate dalla violenza armata dei movimenti terroristici, di cui Moro e Bachelet furono vittime.