Giovanni Falcone e la lotta alla mafia
Nel 1992 ero un giovane di 17 anni. Nel pomeriggio di sabato 23 maggio, stavo passeggiando per Battipaglia quando, giunto all’altezza di un esercizio commerciale di tv, vidi che tutte le televisioni erano sintonizzate su quella che sarebbe passata alla storia come la ‘Strage di Capaci’. Sembrava Beirut, eppure era un luogo del nostro Belpaese. Era l’autostrada che collega Palermo con Mazara del Vallo. Era saltato in aria un tratto dell’A29: furono impiegati 500 chilogrammi di esplosivo. Nell’attentato morirono il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo (anch’ella magistrato) e tre valorosi agenti della scorta: Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo.
Dinnanzi ai miei occhi di adolescente e dinnanzi all’Italia intera scorrevano scene strazianti di quel tratto autostradale sventrato, con autovetture distrutte ed un susseguirsi di soccorsi ed interventi delle forze dell’ordine per tentare di salvare la vita a degli uomini in prima linea nel combattere la mafia senza se e senza ma.
Giovanni Falcone è l’artefice della più grande sconfitta della mafia, quella che si consumò al Maxiprocesso celebrato nel carcere dell’Ucciardone dal mese di febbraio del 1986 al mese di dicembre del 1987. Egli istruì in modo certosino il processo, che si dipanò in 1314 interrogatori, 349 udienze, 635 arringhe difensive e decine di migliaia di pagine. Furono giudicati 460 imputati, tutto il vertice di allora della mafia, con 360 condanne per un totale di 2665 anni di carcere e 11,5 miliardi di lire di multe da pagare.
Il 30 gennaio 1992 la Corte di Cassazione confermò quasi completamente le condanne, ma soprattutto, valorizzò il lavoro prezioso di Giovanni Falcone ed il suo metodo d’indagine, basato su fatti concreti, sul contrasto effettivo ai flussi faraonici di denaro e sulla ricerca di significativi riscontri ai racconti dei collaboratori di giustizia. Falcone fu l’autore, altresì, del coordinamento dell’azione investigativa delle varie Procure italiane: egli riteneva fondamentale mettere insieme il lavoro dei vari magistrati impegnati nella lotta alla mafia per ricercare non solo gli esecutori materiali dei reati, ma tutti i delinquenti che, a vario titolo anche politico ed imprenditoriale, erano collusi con la stessa.
Falcone ha sacrificato la sua vita per la lotta alla mafia, era di una professionalità unica, mai domo, anche quando non fu scelto per guidare il pool antimafia – quando andò in pensione Antonino Caponetto – ovvero quando gli preferirono Agostino Cordova alla guida della Superprocura di cui, come detto, fu l’ideatore.
Falcone era siciliano ed amava la sua terra. La sua testimonianza è la prova che la Sicilia non ha dato i natali soltanto a mafiosi stragisti e sanguinari, ma anche a magistrati che hanno servito lo Stato fino all’ultimo, nonché a tanta gente, anche della società civile, che ha ricercato la giustizia ed il bene comune.
Nel corso della sua vita, oltre alla mancata nomina ai vertici degli organi in cui si organizza e coordina la lotta alla criminalità organizzata, Giovanni Falcone ha subito umiliazioni incredibili, come quando in una trasmissione televisiva gli fu posta questa domanda del pubblico: «Lei dice nel suo libro “Cose di cosa nostra” che in Sicilia si muore perché si è soli. Giacché lei fortunatamente è ancora con noi: chi la protegge?» La reazione del magistrato fu amarissima: «Questo vuol dire che per essere credibili bisogna essere ammazzati?»
Sappiamo tutti com’è finita la sua esistenza terrena; sappiamo che, proprio nel 1992, che fu l’anno della definitiva conferma di tante condanne del Maxiprocesso, la mafia decise di fare guerra allo Stato e di compiere le Stragi di Capaci e, dopo qualche mese, quella di via D’Amelio in cui sarebbe morto l’amico Paolo Borsellino e la sua scorta, anche lui indefesso magistrato del pool anti-mafia.
Siamo grati a Giovanni Falcone per l’aver sacrificato la sua vita impegnandosi per un’Italia migliore, per aver sperato nella sconfitta della criminalità organizzata, per averci ripetuto spesso che “gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”.
Il 23 maggio è diventato l’emblema della rinascita di Palermo e della Sicilia, perché ricordiamo il sacrificio del magistrato Falcone e di tutte le vittime della mafia con manifestazioni, convegni e cortei.
Nell’occasione, Palermo si riempie di giovani che sfilano in corteo fino all’Albero Falcone, davanti all’abitazione in cui il magistrato viveva.
Grazie, Giovanni Falcone! Grazie per averci insegnato che la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine.
(Avv. Marcello Capasso – Coordinatore CS)