La fede, la giustizia, il perdono. Rosario Livatino a trent’anni dal martirio
Nel 2016, nella redazione del giornale “Avvenire”, è recapitata una lettera il cui autore, in un accorato passaggio, scrive: “La fede mi aiuta a sperare che il giudice Rosario Livatino mi abbia perdonato… Credetemi lo sento vicino, ogni istante è con me e mi aiuta a vivere con forza d’animo la pena infinita che sto scontando.” La lettera giunge dal carcere di Sulmona e a firmarla è l’ergastolano Domenico Pace, uno dei quattro sicari che la mattina del 21 settembre 1990, lungo la statale 640 Agrigento-Caltanissetta, aveva ucciso il “giudice ragazzino”. Sì, il giudice ragazzino. Così Nando Dalla Chiesa – rielaborando precedenti esternazioni dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga – aveva definito il magistrato Rosario Livatino, siglando con quel titolo un bel libro del 1992 che due anni dopo, nel 1994, avrebbe ispirato l’omonimo fortunato film di Alessandro Di Robilant. Tutto in uno stretto giro di anni: nel 1993 san Giovanni Paolo II, in occasione della storica visita in Sicilia in cui fece tuonare nella Valle dei Templi l’anatema contro le mafie, aveva incontrato i genitori di Rosario e ne aveva parlato come di un “martire della giustizia”. Rosario Livatino era nato a Canicattì il 3 ottobre 1952. Laureatosi in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1975, a soli 22 anni, col massimo dei voti e la lode, nel 1978 è già in magistratura. Dopo un breve incarico di vicedirettore dell’Ufficio del Registro di Agrigento è infatti a Caltanissetta quale uditore giudiziario, poi di nuovo al Tribunale di Agrigento come Sostituto Procuratore della Repubblica. È qui che, occupandosi delle indagini antimafia, entra nel mirino della criminalità organizzata. Quando la Stidda decide di condannarlo a morte, è giudice a latere al Tribunale di Agrigento. Ma sono gli esordi ad illuminare la prospettiva di una vita spesa a ragionare sui loschi affari dell’imprenditoria locale, incrociando gli sguardi di politici affermati, il tutto con il solo scopo di ricostruire la verità e garantire la giustizia, lontano dai clamori. Nell’indossare la toga, appena dopo aver prestato giuramento nel 1978, Livatino annotava un pensiero di riconoscenza rivolto proprio agli anziani genitori Vincenzo e Rosalia: “Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione che i miei genitori mi hanno impartito esige”. È insomma un giovane al servizio della Repubblica che, affidandosi a Dio, ama collocare il suo nuovo lavoro nel solco di una tenace tradizione cattolica, familiare ed educativa, che lo porta in semplicità ad assumersi grandi responsabilità e a condurre una vita costantemente sostenuta da forte slancio morale, perché ‘appartata’ in Cristo. È oltretutto nella fede che, a distanza di trent’anni dall’orribile assassinio, oggi è ancora possibile incontrare Rosario Livatino. È nella fede, del resto, che il carcere diventa luogo di riscatto ultimo, come confida chi prese parte al plotone in quell’afoso settembre del ’90 ed ora spera di essere stato perdonato. Dalla giustizia al perdono: è una via percorribile? Da chi? Vero è che le parole del killer Domenico Pace tradiscono un desiderio di conversione che, da un lato, impatta con l’efferata occorrenza dell’omicidio di cui fu artefice e, dall’altro, fa a pugni con la comune idea di giustizia a cui diamo sovente credito. Ed è comprensibile: troppo ingiusta è quella morte e troppo giusta è la punizione per concedere al perdono di trovare interstizio tra l’una e l’altra. Eppure, Rosario Livatino avrebbe ragionato in un altro modo. Nel perdono del giudice, a ben vedere, è fondata la speranza di chi, oggi pentito, lo freddò dritto alla testa. Nel 1986, nel corso di una conferenza a Canicattì, il giudice Livatino sottolineava la profonda relazione tra la fede e la giustizia: “La giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana; e forse può in esso rinvenirsi un possibile ulteriore significato: la legge, pur nella sua oggettiva identità e nella sua autonoma finalizzazione, è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge.” Mite e cordiale, puntuale e metodico; tenace e instancabile, irreprensibile nell’onorare gli impegni di lavoro, sempre disponibile verso i colleghi. E ancora: attento alle esigenze dei meno abbienti, devoto e assiduo nell’alimentare la vita sacramentale, sempre lontano dalle luci della ribalta. Andava dritto per la sua strada, come ha fatto fino a quel 21 settembre di trent’anni fa a bordo della sua Ford Fiesta rosso amaranto. Questo era Rosario Livatino. Era uno che ci credeva e, nel credere, declinava il proprio impegno professionale con coerenza e spirito di servizio, con scrupolo e senza cedimenti, per farne una missione di carità da realizzare con sacrificio, costi quel che costi. Il giudice ragazzino ha scritto in una delle sue tante agende: «Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». Parole esatte, severe e coincise, che ne fanno non solo un esempio di integrità morale, ma un vero testimone di Cristo, soprattutto per i nostri tempi malati di quel protagonismo che, togliendo luce e respiro alla silente opera degli onesti, guasta non pochi ambiti della vita pubblica. Additarlo oggi ai giovani è però poco, se il suo martirio non è presto ricondotto alle verità di fede e alle virtù che avevano illuminato gli anni della formazione e del primo servizio in magistratura. Additarlo oggi ai giovani è però poco, se il suo sacrificio non è letto a partire da premesse talvolta invisibili, quelle spirituali, che saldano le scelte di vita ad un intimo spettro di ricerca interiore e sofferto discernimento.
(Giuseppe Falanga)