“La gente mi moriva attorno.” La scelta morale di Paolo Borsellino
“Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno.”
Apprendere che l’impegno di Borsellino contro la mafia fu eventuale, non intenzionale, procura – a distanza di tanti anni dal suo sacrificio – un certo effetto, forte com’è quell’affermazione nel veicolare una verità nitida che illumina d’improvviso il mondo interiore del grande magistrato.
L’effetto è perlopiù di disorientamento, perché a fronte di una testimonianza autorevole e coraggiosa, resa fino alla morte nel contrasto alla criminalità organizzata, viene difficile pensare che tutto sia cominciato per caso.
La scelta di combattere il fenomeno mafioso non fu difatti compiuta – come si suol dire – “a monte” di un percorso civile e professionale ma, ad un certo punto, inaugurò un itinerario costellato di principi e valori afferenti alla dimensione etica dell’esistenza.
Sì, Paolo Borsellino afferma di essere rimasto in trincea sul fronte dell’antimafia per un “problema morale”. Che cosa vuol dire? Ci aiutano a capirlo le parole della moglie Agnese. Nel bel libro “Ti racconterò tutte le storie che potrò” (Milano 2013), scritto a quattro mani con il giornalista Salvo Palazzolo, Agnese Borsellino racconta, ad un certo punto, di vedere il marito andare ogni mattina nella chiesa di fronte casa. Faceva la comunione e pregava Dio affinché lo illuminasse nelle difficoltà. Eppure, Agnese precisa che Paolo non era un bigotto. Anzi, trascrive ciò che il marito diceva: “Per essere un buon cristiano non basta andare in chiesa, bisogna testimoniare ogni giorno la propria fede in Dio.” Una frase che, a detta della donna, ben esprime il sentimento religioso di Paolo Borsellino, da lei sorpreso spesso a donare ingenti quote di denaro ad alcuni bisognosi e la cui carica di umanità veniva talvolta riconosciuta anche dai suoi imputati.
Queste informazioni consentono di cogliere aspetti importanti della personalità del giudice, al di là della toga, per modulare considerazioni di ampia portata che consentono di penetrare lo spirito nascosto dietro alle valutazioni compiute da Borsellino stesso circa il proprio operato.
Se la ‘religione’ è l’atto di ‘religare’, cioè di legare le proprie scelte e le proprie azioni a degli obblighi sacrali, il senso del dovere testimoniato dal giudice Borsellino nei confronti dello Stato può essere letto in questa dimensione religiosa che laicamente sposa l’esercizio della libertà personale – al di fuori d’ogni mera pratica di culto – con il vivere pratico secondo il dettame della coscienza e, dunque, del diritto.
La vicenda di Borsellino sembra cioè disegnare una precisa geografia dell’impegno: tra i principi morali che orientano la libertà individuale ed i valori civili che sorreggono le norme del diritto va dispiegandosi il terreno fecondo della responsabilità. È il terreno in cui maturano i bei frutti – con la fatica immane ed il tempo sottratto agli affetti che soltanto l’amico Falcone avrebbe potuto testimoniare – delle innumerevoli indagini e delle intransigenti sentenze che avevano trovato nella vitalità del pool antimafia e nel maxiprocesso del 1986 il contesto umano e professionale della loro difficile genesi e della loro complessa evoluzione.
Insomma, il senso del dovere e la coscienza sociale di un ruolo istituzionale assunto con dignità e sensibilità avevano a mano a mano animato il giovane Paolo, figlio di un umile carrettiere, fervido studente in Giurisprudenza, appassionato di diritto civile, già magistrato a nove mesi dalla laurea, ogni giorno all’alba, appena sposato, in viaggio verso Mazara del Vallo per il primo incarico di Pretore. Ebbene, dopo essere rientrato a Palermo, fu l’uccisione del capitano Emanuele Basile nel maggio 1980 a segnare il corso del suo impegno in magistratura. Il consigliere istruttore Rocco Chinnici volle che si occupasse dell’istruttoria di quel procedimento. La morte stessa di Chinnici lo avrebbe poi segnato per sempre. Da allora Borsellino non smise di occuparsi di mafia, anche perché gli spargimenti di sangue iniziavano a susseguirsi senza tregua: cominciava la mattanza che avrebbe angosciato la terra sicula per l’intero decennio, almeno fino a quel tragico 1992.
Basterebbe questo passaggio biografico per comprendere che quell’essere entrato nell’antimafia “per caso” a cui allude Borsellino non fu l’esito di una traiettoria predefinita ma l’imprevisto di marca sacrale che rovescia in terra gli ideali per cui ci si è formati e a cui, si sa, i giusti non sanno non obbedire.
A distanza di anni, è Borsellino a tirar le somme e a motivare il suo essere rimasto in Sicilia, contro la prepotenza di Cosa Nostra, contro le insinuazioni di chi lo accusa di voler fare carriera cercando un posto tra i “professionisti dell’antimafia”. Lo fa senza giri di parole: “La gente mi moriva attorno.”
Verrebbe allora difficile comprendere il significato di quest’affermazione se non la proiettassimo sulla bianca parete dell’innocente sollecitudine per la vita sociale, iniqua per definizione, sbilanciata com’è nel distribuire premi e pene, quella in un cui gli onesti diventano ben presto eroi necessari, perché la sagacia di un uomo solo incrocia sempre e soltanto la paura di un popolo intero.
È la responsabilità ad inchiodare Borsellino alla sua terra; è la responsabilità con cui serve lo Stato in diritto e coscienza a trattenerlo tra la sua gente per risalire, nelle grandi battaglie e con i piccoli gesti, la china dell’onestà. Con disarmante semplicità oltretutto il magistrato dichiarava: “A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l’esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato.”
Forse oggi si può attestare che non vi siano, più tanti “morti attorno”. Il drammatico incedere di Paolo Borsellino, tra adulatori e detrattori, tra corrotti ed affaristi, attraversando la ‘zona grigia’ in cui la mafia ritrovava se stessa nella contiguità con uno Stato non più capace di esprimere se stesso, nulla toglie al valore della sua impavida missione. La memoria stessa della luminosa vicenda di quest’uomo evidenzia, al contrario, la complessità di un compito che fu svolto a testa alta, con lucida consapevolezza; l’incastona come un diadema in una vita forse appassionata della verità prima ancora che della giustizia o tutta consumatasi per realizzare questa nella misura in cui ci si batteva per scoprire quella.
Quando il 23 giugno 1992, ad un mese dalla strage di Capaci, Paolo Borsellino intervenne nella manifestazione parrocchiale di S. Ernesto a Palermo, volle rivolgersi ai giovani per ribadire che la lotta alla mafia non poteva essere combattuta con la sola repressione armata, ma esigeva di tradursi in un movimento culturale e morale, anche religioso. In quell’occasione, nel ricordare l’amico Giovanni, raccontava quanto egli fosse entusiasta nel constatare che, giorno dopo giorno, a seguito delle rivelazioni di Tommaso Buscetta, qualcosa stava cambiando. Entrambi, Giovanni e Paolo, notavano il lento ma significativo emergere di nuove possibilità, ad iniziare da quella di una diversa percezione popolare, un po’ meno rassegnata, del fenomeno mafioso.
A 29 anni dalla strage di via D’Amelio sia salda la convinzione che la lotta alla mafia deve poter implicare una partecipazione più estesa tra la gente – nelle scuole e nelle parrocchie – per essere animata dalla volontà di risolvere un problema che è innanzitutto di natura morale.
Sì, non giriamoci attorno. Suonano ancora – e purtroppo – attuali le parole di Gesualdo Bufalino:”La mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari.” Come a voler dire: se il problema è morale, la soluzione non può che essere l’educazione.
Se così non fosse, basterebbe affidarsi ai burocrati, per aprire e chiudere dei fascicoli anziché credere in uomini e donne disposte con coraggio a donare la propria vita.
(Giuseppe Falanga)