La pace non è una fake-news
di Rosa De Blasio
C’è una foto molto famosa del 1993, appena di qualche mese successiva agli accordi di Oslo che stabilirono il ritiro delle forze israeliane da alcune zone della striscia di Gaza e della Cisgiordania, riconoscendo in tali aree il diritto palestinese all’autogoverno attraverso la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), che fu scattata dalla fotoreporter americana Ricki Rosen: la foto, che circola ormai da tempo su tutti i social, soprattutto nei post inneggianti alla pace e in riferimento a Paesi che non ne godono più da decenni, riproduce l’abbraccio fraterno fra due bambini che dal copricapo indossato, una kippah israelita e una kefiah palestinese, reputiamo appartenenti ai due popoli. Suggestiva la foto e di immenso valore il messaggio di pace e di solidarietà che ha contribuito a diffondere! Ebbene, se ne parla da un po’ come di una fake news, perché la fotografa autrice dello scatto ha ammesso che i due piccoli protagonisti erano, in realtà, entrambi ebrei, precisando che l’immagine non aveva un valore documentale ma simbolico: doveva rappresentare, cioè, lo struggente e vivo desiderio di pace di due popoli che dal 1947, anno in cui l’Assemblea generale dell’ONU approvò la risoluzione 181, che stabiliva la suddivisione dei territori della Palestina tra ebrei e palestinesi ( 56 per cento del territorio agli ebrei e il resto ai palestinesi), hanno, invece, inaugurato una estenuante e sanguinosa stagione di guerra. Quello della foto “costruita” è, alla fin fine, un falso problema: che ad indossare una kippah e una kefiah siano stati due bambini ebrei cambia forse l’intensità del messaggio che si voleva far passare? E cioè che il sangue versato è rosso e sacro per entrambi i popoli, che le lacrime delle vittime hanno lo stesso amaro sapore di dolore e che sono tanti gli israeliani e i palestinesi che vogliono spezzare le catene della violenza e dell’odio fratricida? Per parlare del conflitto israelo-palestinese, senza voler andare troppo indietro nel tempo, possiamo partire dalla dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917. Quel giorno il governo inglese, rappresentato del ministro degli Esteri Arthur Balfour, informò Lord Walter Rothschild, al tempo uno dei principali leader della comunità ebraica nel Paese, che vedeva “con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico” e si sarebbe adoperato “per facilitare il raggiungimento di questo scopo”. Solo alla fine della seconda guerra mondiale, dopo la sconcertante scoperta degli orrori perpetrati dal Terzo Reich di Hitler con la “soluzione finale” che doveva annientare la popolazione ebraica residente in Europa, lo Stato di Israele sarà proclamato il 14 maggio 1948, diventando “casa” per tanti ebrei provenienti da ogni parte del mondo. Ma i palestinesi, sostenuti dagli stati arabi, delusi per la promessa non mantenuta dagli inglesi di creare uno Stato arabo, non accettarono la spartizione stabilita dalla risoluzione 181. Nei tre decenni successivi alla sua fondazione, il rapporto tra Israele e gli stati arabi fu profondamente conflittuale, e a quella del 1948-49 sarebbero seguite altre guerre, due intifade, la costruzione di un muro di confine e innumerevoli attentati. Nel 2003, tra i vari tentativi di mediazione ci fu quello che vide Usa, Unione Europea, Russia e Onu avviare la c.d. “Road map”, un programma che, gradatamente, avrebbe dovuto portare alla distensione nei rapporti tra i due Stati. Ma anche questo piano fallì nel suo intento! Fino al 2005, anno in cui Israele si ritira dalla striscia di Gaza, occupata nel 1967 con la “guerra dei 6 giorni” (con la quale Israele conquistò Gerusalemme est e la Cisgiordania) e che passa così sotto il controllo dell’ANP, vari eventi bellici, attentati terroristici e quotidiane schermaglie tra civili hanno tenuto il mondo con il fiato sospeso e terrorizzato intere generazioni di cittadini residenti. Con la vittoria alle elezioni legislative del 2007 del gruppo radicale di Hamas, e ci preme qui ribadire che Hamas non rappresenta il popolo palestinese, le condizioni di vita nella striscia di Gaza sono diventate sempre più precarie a causa dei frequenti embarghi che Israele ed Egitto hanno imposto per indebolire i nemici, al punto che da più parti si è parlato di una vera e propria apartheid operata in danno del popolo palestinese. In una situazione così incandescente l’ala armata di Hamas, con quasi 1000 miliziani, è penetrata lo scorso 7 ottobre nel territorio israeliano dalla Striscia di Gaza e ha sorpreso i civili residenti nei kibbutz nel sud della regione del Negev, uccidendone più di mille, prendendone in ostaggio circa 200, soprattutto giovani (quelli sopravvissuti tra i partecipanti ad un rave) e bambini. Immediata la risposta di Israele ai missili lanciati da Gaza: una violenta campagna di bombardamenti ha causato la morte di migliaia di palestinesi, di cui circa un terzo minori. Possiamo immaginare la possibile escalation del conflitto, a causa del coinvolgimento del Libano Meridionale, della Siria e della Cisgiordania, dei continui messaggi inneggianti all’odio verso Israele di Iran e altri stati islamici e l’attenzione che Putin (che parla di pace necessaria, lui…), Erdogan (che invoca il rispetto dei diritti civili…anche lui) e Cina, da una parte, e gli USA dall’altra, dimostrano di avere per questo lembo martoriato di terra. Chi scrive non si schiera a favore dell’uno o dell’altro: chi crede nei valori democratici di libertà e nel diritto di ogni popolo ad un proprio territorio sarà sempre dalla parte delle vittime innocenti dei conflitti e di chi, ebreo o palestinese, operi contro la logica della guerra! E’ ancora forte l’emozione che le immagini del rilascio di Yocheved Lifshitz, ebrea di 85 anni ostaggio di Hamas, hanno suscitato nel cuore di tanti: questa donna, fervente attivista per i diritti umani, al momento del rilascio si è voltata verso i rapitori dicendo “Shalom” e “Aleikum Salam” chein ebraico e in arabo significa “pace”! Ma non sono auspici di “pace” i rigurgiti di antisemitismo che si verificano in molti paesi, con stelle di David e croci uncinate disegnate sui muri dei palazzi; non è “pace” la strategia di usare civili palestinesi come scudi umani contro razzi e artiglieria israeliani o di bombardare gli ospedali di Gaza perché Hamas ne userebbe i sotterranei per nascondervi uomini e armi. No, questo è odio allo stato puro e l’odio non ha mai prospettive e soluzioni di bene! Benjamin Netanyahu, attuale primo ministro di Israele dopo esserlo stato già due volte a partire dal 1996, gode sempre meno dei favori del suo stesso popolo: in molti lo considerano il principale colpevole della crisi! Alla politica moderata del passato ha preferito una posizione dichiaratamente conservatrice, adottando misure miranti ad annettere la Cisgiordania, con quella che altro non è che una pulizia etnica dell’Area C che era stata individuata dagli accordi di Oslo, colline di Hebron e Valle del Giordano incluse. Se a questo si aggiunge il depotenziamento dei servizi di sicurezza e degli organi giudiziari, il malcontento dei residenti arabi per la pressione dei coloni israeliani e il ricordo, mai sopito, delle accuse di corruzione in capo a Netanyahu, comprendiamo che la situazione interna del paese è tutt’altro che facile e non depone in favore di prospettive di pace. Il nostro Presidente Mattarella ha più volte invocato la soluzione che garantirebbe la tanto agognata pace: “Resto convinto che l’unica soluzione che porti alla stabilità e alla pace sia quella di due popoli e due Stati». Ma per far ciò ci si dovrebbe adoperare per la creazione di uno Stato palestinese nei territori di Cisgiordania e della Striscia di Gaza, con Israele chiamata a cedere i territori occupati nel 1967 e i palestinesi a rinunciare definitivamente a quelli che hanno perso nel 1948. Chi non è per questa soluzione dichiara insormontabili tre problemi: 1) la questione di Gerusalemme: capitale di quale Stato, vista la rivendicazione da parte di ebrei e arabi? 2) Come reagirebbero i coloni degli insediamenti israeliani che dal 1967 vivono stabilmente nel territorio che sarebbe di sovranità palestinese? 3) il ritorno dei profughi palestinesi a cui si oppone Israele, considerando pericoloso l’aumento della popolazione araba. E’ necessario che chi ne ha il potere si adoperi perché questa terra martoriata possa finalmente diventare “casa” per entrambi i popoli, con il riconoscimento di cittadinanza e diritti per tutti gli abitanti, a prescindere da etnie e religione. L’obiettivo da perseguire è l’uguaglianza tra ebrei israeliani e arabi palestinesi, unica strada percorribile per risolvere il conflitto in corso, condannando la violenza del più forte senza giustificare le mani macchiate di sangue del più debole. Al momento è in corso una tregua per consentire la liberazione degli ostaggi ebrei ancora in mano ai palestinesi e il rilascio di arabi detenuti nelle carceri israeliane. Tregua non significa pace, però la guerra prosegue anche se c’è l’intesa sullo scambio di prigionieri. Il resto del mondo trattiene il fiato, temendo una cruenta escalation di un conflitto la cui fine sembra molto lontana e il cui prezzo sarà pagato sempre e solo dai civili! Su un’assolata strada di confine della striscia di Gaza, Moshe e Ahmed si nascondono dietro i cumuli di macerie di uno degli innumerevoli bombardamenti: armi in pugno e occhio al nemico, attendono il segnale di attacco. Sopra le loro teste il cielo è di un azzurro così intenso da sembrare irreale… Sono reali, invece, il freddo del metallo del fucile mitragliatore, il sudore che scende giù per la schiena, la paura di lasciarci le penne in un conflitto a fuoco. Si fanno la guerra, Moshe e Ahmed, una guerra che non hanno deciso loro ma di cui pagano lo scotto. Sognavano la pace, Moshe e Ahmed, per la millenaria e martoriata terra di Abramo, avrebbero voluto essere costruttori di ponti e non di muri di confine, contribuire all’edificazione di scuole e ospedali e non di arsenali di guerra. Sognavano…ma i loro sogni sono svaniti in una grigia aurora di guerra!