L’impossibile nel cuore di Armida
La fede, l’audacia e la generatività apostolica di Armida Barelli
di Giuseppe Falanga
La figura e l’opera di Armida Barelli esprimono una forma di laicità cristiana autenticamente vissuta nell’impegno costante ad ordinare secondo Dio la realtà temporale.
Nel rileggere la vicenda di colei che innovò lo stile del laicato italiano e affermò la dignità della donna dentro e fuori la Chiesa fino a promuovere un’inedita azione di femminismo cattolico, non si può non rilevare l’ardore evangelico con cui
il verbo di giustizia è stato incarnato nel corpo sociale, perché ne reggesse l’unità e ne disciplinasse le membra. È un’impresa, quella di Armida, che è stata tenacemente condotta nella ferma e sincera devozione al Sacro Cuore di Cristo, perciò capace di fare breccia nello spettro del possibile per dischiudere scenari inesplorati, per accettare finanche la tribolazione ed assumere il rischio del fallimento, ancorata sì a premesse spirituali ed identitarie solide, eppure capace di sperimentarsi in inedite forme di partecipazione laicale nel perseguimento dei più alti fini di formazione culturale e di edificazione morale.
Se si considera che la famiglia Barelli è esponente della borghesia milanese otto-novecentesca il cui sostrato è alimentato sì da un fiero moralismo patriottico, improntato all’etica civile liberale, non certo di marca religiosa, men che meno ancorata ad un’appartenenza ecclesiale, viene da chiedersi quali siano stati i presupposti di una vicenda umana e cristiana che sarebbe stata segnata per sempre, in ogni sua stagione, da una carica evangelica straordinaria.
Eppure, va innanzitutto attestato che l’educazione austera ed illuminata impartita alla giovane Ida non ha precluso alla Grazia la via per toccarle il cuore.
La storia – si sa – non si scrive ragionando per ipotesi, ma il sondare le alternative mancate nell’incedere immediato dei fatti sembra investire quest’ultimi con un lume che li fa più nitidi, bagnandoli di una verità a tratti più lucida, fino a mostrarceli quasi nella loro eloquente cogenza.
Se Armida non avesse fatto ciò che ha fatto?
Se la studentessa determinata non avesse accettato la sfida di un’educazione compiuta nel suo rigoroso indirizzo? Se l’intrepida organizzatrice di eventi e raduni avesse preferito alla mobilitazione della base una modalità più dimessa di partecipazione unitaria? Se la fondatrice di istituti e collegi, opere, oasi e movimenti si fosse limitata a perimetrare gli ‘spazi’ esistenti senza avvertire il bisogno di dilatarli? Se la schietta interlocutrice di religiosi, cardinali e pontefici si fosse limitata ad obbedire senza obiettare, a rispondere senza domandare?
Se l’integerrima attivista politica non avesse avuto a cuore un’Italia da ricostruire e non si fosse battuta per il riconoscimento del voto alle donne?
Ebbene, se la “sorella maggiore” di tante associate è riuscita a realizzare i propositi meditati non è – probabilmente – da attribuirsi al solo fatto che si sia cimentata con coraggio dando tutta se stessa, quasi fosse stata sospinta da una fortunosa temerarietà nel vortice propizio di una congiuntura favorevole, ma – verosimilmente – è da ricondurre all’essersi innanzitutto specchiata con fede nel mistero che, in quanto tale, esige di andare oltre se stessi.
Se Armida ha fatto quel che ha fatto è perché ha creduto nella provvida azione dello Spirito; ha creduto in quel Dio che a fronte di una necessità o di un’opportunità fino ad allora inespresse o trascurate non avrebbe tardato a suggerire i modi e le risorse per corrispondervi con amore.
Armida ha scelto di operare per Dio consacrandogli la propria vita, perché era certa di avere un posto nel Cuore di Cristo. Non da sola, bensì in forma aggregata, donando innanzitutto la propria intelligenza al servizio della Chiesa. Il fine evangelico di quest’ardire tutt’altro che incosciente si è a mano a mano realizzato in molteplici progetti ed iniziative, nonché nello stringere intese ed alleanze, che hanno di volta in volta potenziato lo slancio apostolico nella strenua affermazione dei valori corrispondenti al disegno creatore.
Ispirata dalla Parola e sollecitata dal Magistero ecclesiale, Armida ha vissuto nella coerenza alla vocazione laicale, dando forma ad espressioni originali di appartenenza ecclesiale ed esplorando dimensioni nuove di partecipazione sociale per le donne del suo tempo, non senza per questo dover fronteggiare resistenze ed incomprensioni, prediligendo sempre le direttrici missionarie che, lungi dal disertare la complessità della contingenza, eppure in quella vagliando l’effimero e l’essenziale, le consentissero di rappresentare l’opzione temporale del Regno di Dio; quelle direttrici – per intendersi – attraverso cui poter educare l’uomo ed orientarlo all’orizzonte del Regno stesso. Il che esigeva la profonda consapevolezza che proprio le realtà temporali dovessero essere ordinate, con la pazienza del seminatore, senza comprometterne l’autonomia, adottando il criterio evangelico come opzione alternativa, per agevolare la libera adesione dei singoli. Di qui, la costituzione della Gioventù Femminile di Azione Cattolica nel 1918 trova la cornice di riferimento nell’emergere di una nuova ecclesialità; di qui nel 1919 la nascita ad Assisi dell’Istituto Secolare delle Missionarie della Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo, di ispirazione francescana, segnerà una nuova sintesi tra fede e vita per tante donne, consacrate a Cristo eppure impegnate nel mondo; di qui, la fondazione nel 1921, insieme con P. Agostino Gemelli, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, trova un paradigma importante nell’evolversi dei modelli culturali contemporanei e nella definizione di proposte culturali alternative alle mode correnti; di qui, la fondazione nel 1929 – ancora con P. Agostino Gemelli – dell’Opera della Regalità di N. S. Gesù Cristo come esercizio stabile di affermazione della sovranità spirituale di Cristo in ogni ambito pubblico e privato, investendo risorse per la formazione spirituale e culturale delle donne, di contro alle derive del laicismo.
Va da sé che l’attività apostolica di Armida è tutta calata nel contesto sociale del suo tempo e in esso spande semi di Vangelo. La matrice su cui quell’impresa va definendosi nella sua sfidante complessità non può di fatto non avere fondamento in un’intensa e profonda spiritualità cristocentrica. La volontà costantemente determinata a seminare e raccogliere per edificare la Chiesa, nelle stagioni della vita personale e apostolica – anche e soprattutto in quelle avverse – è nota caratteriale che si fa ogni volta linfa rigenerante in quell’amare sempre il Cristo, pregando con cuore vigile ed operoso, senza mai rinnegare il presente, bensì facendo leva sui dettagli più significativi che talvolta apparivano promettenti nel nascondimento d’ogni sua intima piega, riconoscendo in essi le orme di un Dio compagno di viaggio. Ed è stato un amore sì corrisposto a piene mani, perché il Cristo l’ha amata per primo e tale era la misura dell’inatteso amore da non poter non essere definita dal suo stesso superamento. Al Sacro Cuore Armida affida i suoi propositi, perché diventino realtà. Nonostante tutto. Il suo motto, non a caso, è “Mi fido di Te”. E non sarà un caso se un altro suo motto ancora oggi ricordato è “Impossibile? Allora si farà!”, formula consuntiva di un abbandono immediato e totale all’Assoluto che increspa la quiete del pregiudizio e giunge a convertire il reale, per dilatare il campo delle possibilità ammesse dalla ragione e trarne frutti insperati. E se un altro suo motto trova respiro nell’agile stringa “Ardire con Ardore” è per dirsi consapevoli, una volta ancora, del rischio di essere sfiduciati dal prossimo ed incompresi dalle masse, un rischio a cui, agendo nel mondo per Cristo, chi avanza in quella difficile militanza e ad altri va legando per senso di responsabilità una parte importante della propria autonomia, inevitabilmente si espone.
Tra il Vangelo e la Vita c’è di fatto – non potrebbe essere altrimenti – la condizione umana, con le sue alture ed i suoi rovesci, attraversata da una tensione generativa che altro non è che la segreta vocazione con cui quell’umano si palesa al mondo senza giudicarlo, anzi aprendosi, con modi personali e in modalità del tutto singolari, all’orizzonte trascendente quale risposta ad un’intima istanza di pienezza.
Armida ha insegnato come promuovere l’apostolato dell’ambiente sociale: nella semplicità dirompente del suo essere se stessa, fuori del focolare domestico, in veste di fiera protagonista e non quale opaca comparsa sulla scena del mondo. Così facendo, ha dimostrato come si possa ancora oggi permeare di spirito cristiano le strutture sociali della comunità in cui i laici sono chiamati a vivere ed a testimoniare la carità.
La creatività inaugurale propria dell’agire di Armida si manifesta dunque non tanto nella muta replica di opzioni esistenziali già saturate nei remoti modelli di santità ‘tipici’ della tradizione cristiana quanto nella capacità di estrarre cose nuove da un grave retaggio di tradizione e gloria; si manifesta in un’azione mediana e lungimirante, in grado di farsi carico delle istanze implicite nel tempo presente e di orientarle al punto di massima convergenza – o di ultima conversione? – in cui al male non è dato altro margine di sopravvivenza che vedersi tradotto nel bene immaginato, invocato, costruito. E nell’intraprendere tutto ciò, Armida ha agito con l’audacia visionaria degli innovatori, senza che in quell’operato ne uscisse attutita l’assonanza multipla alle medesime mozioni dello Spirito. Per l’appunto, l’audacia.
La sua vita ha testimoniato uno stile ed un’opera di santità laicale che hanno disegnato, laddove nulla o poco c’era che incoraggiasse un esordio, aree di incontro in cui gli uomini e le donne potevano confrontarsi e formarsi nel guado della vita, alla luce del Vangelo. Lo ha fatto asserendo sì l’ispirazione divina nella chiara formula di ideali presupposti – mai tradendo il Sacro Cuore -, ma ponendo un’attenzione formidabile anche agli aspetti organizzativi di ogni iniziativa sociale. È, il suo, uno sguardo teso alla dimensione pratica dell’esserci in cui solo una diffusa e profonda consapevolezza circa le premesse ed i fini, le intenzioni e gli obiettivi dell’ennesimo progetto avrebbe consentito che un pieno ‘agire’ non scadesse nel vuoto ‘fare’. Perché la ‘militanza’ apostolica per il Regno di Dio non era né attivismo clericale asservito al potere gerarchico né tattica collaudata con i mezzi della propaganda confessionale, bensì schietto esercizio di laicità svolto nella quotidiana assunzione di responsabilità civili che, nel porre con urgenza le questioni, le affrontava poi con impegno, di certo non senza premunirsi di una buona dose di pragmatismo.
L’intraprendenza fondativa di Armida, il suo fecondo genio femminile, quell’inaugurare inesauribile di forme e strutture entro cui anche le donne avrebbero potuto operare sintesi tra le proprie scelte private e la partecipazione pubblica alla vita democratica del Paese, si coniuga con l’integro riserbo della dignità battesimale, laddove il momento istituzionale è sempre esaltato come ferma asserzione di una libertà alternativa, come opzione formativa necessaria che avrebbe dovuto conferire valore e durata ulteriori ai progetti di una cattolicità quasi reinventata nel sereno intrattenersi, senza infrangersi, con le moderne istanze di civiltà e cultura.
La vicenda di Armida Barelli è cifra di una laicità cristiana che, nell’esaltare la condizione umana nelle evidenze positive della vita ordinaria, è riuscita a lumeggiare la ferialità come dimensione testimoniale, senza che nel vortice dei tanti progetti realizzati fossero negati limiti e fragilità di una natura semplicemente accettata nella perenne sfida col tempo, in questo anzi cercando segni ed argomenti come occasioni epifaniche – e qui breve è il passo dalla liturgia alla beatitudine – attraverso cui tutti, ancora oggi, possono fare concreta esperienza dell’amore di Dio.