“Vorrei solo tornare a casa, nella terra in cui sono nato”
Faccia a faccia riservato con Najwan Darwish
– a cura di Alberto Cicatelli
Quando gli ho chiesto: “come stai?” Najwan mi ha risposto: “sto bene qui in Italia, grazie, e comunque come sto non ha importanza, ha importanza dove non sto”. “In che senso?” gli domando. E lui: “Vorrei solo tornare a casa, anche se non ce l’ho più un casa, nella terra in cui sono nato e vivere lì per il resto dei miei giorni.” Inizia così la commovente conversazione con Najwan Darwish, giovane poeta palestinese, in riparo qui da noi a Roma, ospite di comunità arabe da anni impegnate nella nostra capitale a sostegno di profughi palestinesi. Najwan Darwish, classe 1978, nasce a Gerusalemme in un periodo di fortissime tensioni tra la OLP-Organizzazione per la Liberazione della Palestina e lo stato israeliano: erano gli anni drammatici della penetrante occupazione militare e della cd. “seconda Intifada” con vittime innocenti e forti perdite da ambo le parti in conflitto. Najwan Darwish è considerato oggi come uno fra i primi 30 poeti arabi più seguiti e amati al mondo, degno erede di Mahmoud Darwish, scomparso qualche anno fa, famoso scrittore e poeta palestinese passato alla storia anche perché nel 1988 scrisse la Dichiarazione di Indipendenza poi proclamata da Yasser Arafat, leader dell’OLP in quel tempo.
Najwan che dolore è quello che senti dentro?
“Forse non è solo dolore o forse non è neanche dolore, e comunque non è un dolore vuoto, né sordo, non è neppure un dolore solo privato, ma universale, però lo sento mio, tutto mio, e lo sento pieno di speranza, difatti io spero sempre di vivere come un vivo non come un già morto”.
A cosa pensi quando volgi lo sguardo verso Oriente?
“Che non posso fermare il tempo, ma vorrei fermare la storia e inchiodarla alle sue miserie umane…”
Najwan la tua poesia arriva dappertutto, ma prima di tutto arriva al cuore, poi anche al cervello, infondendo nell’anima una dolcezza intellettuale e persino una serenità che sembrano fare a cazzotti con la insostenibile cruenza quotidiana di una vita appena sempre al filo vulnerabile della tensione, dei nervi, delle paure, ansie e tanto tanto dolore.
“E’ quello che dicono quelli che mi vogliono bene, io sento ogni parola tuonare dentro di me, poi la penso e infine la ascolto per metterla su carta, ahimè, che bella la carta!” e qui mi sorride, e mi fissa dritto con quei suoi occhi scuri scolpiti sopra un volto apparentemente disteso tuttavia non privo di cicatrici invisibili, il suo è uno sguardo lucido e triste sopra un sorriso tenero, è come un naufrago immobile sopra un mare in tempesta, e io vorrei solo abbracciarlo adesso, niente di più, e abbandonarci a parlare solo attraverso il nostro reciproco bisogno di “silenzio”.
Poi, ad un tratto, improvvisamente e incontrollabilmente insorge impetuoso e disonesto il coraggio timido di una mia ultima domanda, che però appare inspiegabilmente uguale alla prima.
Cosa ti manca di più in questo momento?
“Vorrei solo tornare a casa, dove sono nato, per finire lì il resto dei miei giorni, non desidero altro”.
Appare rispettoso inchinarsi di fronte a questo semplicissimo tuttavia altrettanto complicatissimo bisogno umano, istintivo, materno e paterno allo stesso tempo, lasciando dunque tacere la penna. Non v’è da aggiungere altro, solo una sua poesia dal titolo: “Il nostro stendardo sconfitto” tratta dalla raccolta “Esausti in Croce” presentata al Salone del Libro di Torino quest’anno (2024), e, infine, la critica contemporanea verso di lui.
Lo stendardo sconfitto
Se potessi tornare
non lo farei sotto nessun altro stendardo.
non lo farei sotto nessun altro stendardo.
Ti abbraccerei anche
con braccia mozzate.
Non voglio ali nel paradiso.
Voglio solo le tue tombe
in riva al fiume,
voglio l’eternità sul tavolo della colazione
con il pane e l’olio.
Amo tanto solo te
terra,
mio stendardo sconfitto.
(Najwan Darwish)
La critica contemporanea su Najwan Darwish
[…] “Voce allo stesso tempo così appassionata e così concreta da fermare il respiro […] Dovrei avvertirti, forse, lettore immaginario la cui vita è così diversa dalla mia – qualunque siano le tue opinioni, la politica, le esperienze passate o la loro mancanza – sarà impossibile, quando avrai finito di leggere questa raccolta, sfuggire a un legame con la Palestina”.
Amal El Mohtar, “Nothing More To Lose Forges A Connection To Palestine”, 29 aprile 2014 (https://www.npr.org/2014/04/29/307745945/nothing-more-to-lose-forges-a-connection-to-palestine)
“Questa vasta gamma di voci è alla base di gran parte del notevole successo di Darwish come poeta: nessun palestinese ha mai scritto poesie come queste prima d’ora”.
Kareem James Abu-Zeid, “Translator of Nothing More to Lose, No Palestinian Has Ever Written Poetry Quite Like This Before” (https://arablit.org/2014/04/10/no-palestinian-has-ever-written-poetry-quite-like-this-before/)
“La resistenza è costante nel sangue e nella memoria, ma questa poesia, per quanto feroce, è anche un’accettazione lirica, umana, dell’antagonista, degli antagonisti, anche di quelli, perché il male non dorme mai, del proprio partito, sul proprio terreno. Questa poesia non gioca con giochi linguistici, critici, teorici, non si rivolge alle accademie, ma va dritta al cuore, dritta al punto in ogni verso predomina la voce lirica, la forza commovente e interrogativa”.
Nathaniel Tarn, “Najwan Darwish, Lute & Drum”.
“A differenza di Mahmoud Darwish, le poesie di Najwan Darwish sul conflitto israelo-palestinese si spingono oltre la silenziosa meditazione o elegia […] Darwish estende l’idea di Rimbaud all’identità etnica. In vari momenti, chi parla si identifica non solo come palestinese ma come curdo, armeno, arabo, ebreo sefardita, siriano e antico egiziano, solo per citarne alcuni, che comprendono gruppi della diaspora di etnie, religioni, storie e nazionalità”.
Eric Dean Wilson, “Nothing More to Lose by Najwan Darwish, The Rumpus”. (https://therumpus.net/2014/06/25/nothing-more-to-lose-by-najwan-darwish/).